Il fallimento della politica

Qualche giorno fa, in prima pagina su un giornale locale, titolo a sei colonne “I trentini non aiutano i partiti” e sottotitolo “solo il due per cento dei contribuenti destina il due per mille ai politici”. Qualcuno fotografa la testata del giornale con il telefono cellulare e la pubblica su Facebook. Commenti sarcastici assortiti tra i quali “..loro si prodigano per noi e nessuno ne riconosce i giusti meriti..” Per carità di patria, o meglio per carità di provincia, non vado oltre e tralascio i commenti raccolti al bar oppure in altro luogo pubblico. Mentre non ricordo un momento storico in cui la politica sia stata così disprezzata e la sua classe dirigente così screditata. Tutta. Indistintamente. Sia quella appartenente alle file della maggioranza che a quelle dell’opposizione. Finendo con il mettere su uno stesso piano – questo è il vero guasto, il vero pericolo, il vero equivoco da spazzare via in fretta – politici per passione e politici per professione, impegnati e meno impegnati, preparati e meno preparati, seri e meno seri, intelligenti e meno intelligenti, onesti e meno onesti. Ammesso esista il parametro per dare un senso a termini quali passione, impegno, preparazione, serietà, intelligenza, onestà. Tenuto conto che la differenza la fanno le persone e, già da tempo, non c’è più nessuno a parlare di idee differenti o di differenti ideologie. Non ho molti dubbi nel ritenere che la nostra società stia vivendo il fallimento della politica, nella accezione originaria greca di “ta politikà” ovvero “le cose che riguardano la città, il cittadino, la comunità”. Quella “politikà” che impone a chi si propone come guida ed amministratore di prendere decisioni per il bene di tutti e non per gli interessi personali. Quella “politikà” che richiede scelte talvolta difficili ed impopolari ma necessarie. Quella “politikà” che, per dirla con James Freeman Clarke, sa guardare alle prossime generazioni e non alle prossime elezioni. Così ad esempio, se osservo il livello nazionale, ritengo che sia stata un’autentica porcheria affidare ad un referendum la scelta “trivelle sì, trivelle no”. Scaricando sul semplice cittadino, quale lo scrivente, la responsabilità di una decisione tecnica e difficile da prendere ma, prima ancora, politica. Come se non ricordassimo l’esito (scontato) che, negli ultimi decenni, hanno avuto i referendum con l’eccessivo ricorso ad uno strumento diventato abusato. Da una parte quindi, destinati a non raggiungere mai il quorum (in Italia non si vota per esprimere un’opinione ma un’appartenenza politica) e dall’altra, quando il quorum viene raggiunto, puntualmente ignorati o addirittura disattesi. Poiché c’è sempre qualche teatrino o giochino d’aula.. come nel caso del finanziamento pubblico ai partiti. Tra premier che, nel lamentare il costo di un referendum, suggeriscono di andare al mare e vertici delle istituzioni che suggeriscono di non votare. Tra senatori autonomisti che invitano a disertare le urne “perché le trivelle non riguardano il Trentino” (?), dei quali sarebbe interessante raccogliere i commenti se, a fronte di un referendum sulla tutela dei fiumi alpini, i colleghi senatori del centro-sud-isole dichiarassero “sono realtà che non riguardano le nostre regioni”. Tra politici nazionali che, ad ogni consultazione, evocano l’ultima spiaggia per il governo ben sapendo, come diceva Flaiano, che “in Italia non si arriva mai all’ultimatum, sempre al penultimatum”. In quanto – dai diritti ai doveri, dalla sanità alla giustizia – non c’è nessuna certezza per nessuno. Anche se, per i furbetti del quartierino, c’è sempre e comunque una qualche via di uscita. Così ad esempio, se osservo il livello provinciale, ritengo che sia stata un’autentica fesseria ricorrere alla staffetta per il ruolo di presidente del Consiglio di Amministrazione dell’autostrada A22. Una soluzione che – se soddisfa a metà l’appetito dei due principali partiti della coalizione di governo, il PD ed il PATT, con l’UPT sullo sfondo a digiuno in attesa di tempi migliori – riporta il Trentino indietro di qualche decennio. Alle spartizioni di ruoli e soprattutto di sedie che, se danno soddisfazione ai culi di pietra, certamente avviliscono le libere intelligenze. Alle spartizioni di ruoli e soprattutto di sedie che offrono una parvenza di visibilità poiché, come in questo caso, il potere non sta tanto nella presidenza quanto nelle funzioni attribuite all’amministratore delegato, saldamente di nascita altoatesina. Alle spartizioni di ruoli e di sedie che non solo avviliscono l’intelligenza, la capacità, la preparazione, l’impegno ma – a mio parere – anche la dignità di professionisti quali Andrea Girardi e Luigi Olivieri. Domande. Se un presidente ricopre al meglio il proprio ruolo, perché mai dovrebbe dimettersi, dopo un anno e mezzo, per dare spazio a chi ha ancora tutto da dimostrare? Se chi subentra, per un anno e mezzo, ricopre il ruolo meglio di chi l’ha preceduto perché mai non è stato chiamato prima ad assolvere lo stesso compito? Se tutti e due, alla scadenza del triennio, hanno lavorato molto bene cosa si fa? Li si manda a casa o li si proroga in un’altra staffetta, magari invertendone l’ordine di partenza? Oppure li si manda a casa e si chiama un’altra coppia, o magari un trio, in rispetto degli equilibri politici del momento e quindi della relativa spartizione di ruoli e sedie? O forse, proprio per la buona “politikà”, non sarebbe più opportuno scegliere uomini e donne capaci, buttando nel cestino dell’immondizia l’eventuale etichetta di appartenenza? Chiudo qui, riprendendo il titolo. Che cosa fa oggi la coalizione di governo provinciale – alla quale chi scrive, peraltro in assenza di alternative credibili, non aveva fatto mancare né un’apertura di credito né un sostegno – percorsa com’è da attriti soprattutto personali, minacciata da spaccature di potere, indecisa sulle linee di azione da seguire, con le altre regioni che sembrano ripartire mentre il Trentino rimane immobile al palo? Una bella verifica di maggioranza. Inutile, come lo è da sempre ogni verifica di maggioranza. Una bella iniziativa vintage, a riprova che a fare il politico non sono tanto l’età anagrafica o la bella presenza quanto la voglia di dare senza chiedere, l’impegno verso gli altri, la lontananza dal tornaconto personale, la passione autentica da mettere in ogni azione. Tutta merce rara nella classe politica odierna. C’è da essere preoccupati se è vero che “le idee camminano con le gambe degli uomini”.

DATA DI PUBBLICAZIONE

04.05.2016

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