Katia Brida: fili che raccontano la storia

É un fiume in piena, Katia Brida. L’entusiasmo è palpabile quando parla di tessuti, di esperienze, di emozioni e, più in generale, del suo lavoro, che collega saldamente il presente e il passato.

Dal suo studio di Arco, allestito con cavalletti, vasche di lavaggio, micro-aspiratori fili, colori e polveri, Katia parte dall’adolescenza all’Istituto d’Arte Depero di Rovereto, dove venne folgorata dai tessuti (“in quel corso eravamo solo in tre: lo avevamo scelto perché volevamo lavorare usando le mani”) e dove incontrò l’insegnante francese che la avvicinò al restauro dei tessili. Fu una folgorazione.

Dal Trentino a Firenze

Così, terminati gli studi a Rovereto, le venne naturale andare a Firenze: l’unico posto in cui poteva frequentare la scuola post diploma in linea con le sue aspirazioni. Di lì, le esperienze come apprendista e poi finalmente la decisione di rientrare in Trentino, dove oggi è l’unica professionista ad avere la qualifica di “restauratore di tessuti”, ruolo che rivendica e difende con orgoglio: “All’inizio della mia attività, nessuno considerava questa nicchia: la chiamano “arte minore”, ma non lo è per nulla! Nel bene e nel male, ancora oggi sono l’unica in provincia a fare questo lavoro e ammetto che se da una parte è bello avere oggi il laboratorio stracolmo, dall’altra mi rendo conto che manca qualcuno con cui confrontarsi.”

Nella nostra provincia, fino a pochi anni fa, mancava una cultura del tessile, ma poi in Soprintendenza ne è stato compreso il valore: “Vent’anni fa, se un museo faceva una richiesta di finanziamento per il restauro di un abito, non veniva nemmeno presa in considerazione, forse perché il tessile lo hai sotto gli occhi di continuo, fa parte della vita quotidiana, ma fortunatamente oggi non è più così. ” – considera Katia -” Se ci pensiamo bene, il tessile è uno strumento di comunicazione: gli abiti, ad esempio, avevano (e in parte hanno anche oggi) un codice cromatico. Erano e sono uno strumento per comunicare (e spesso ostentare) il potere, il ruolo, il peso di chi li indossa.”

Nel segno di Depero

Mentre quest’incredibile professionista parla, apre mondi. Ti prende idealmente per mano e ti accompagna a conoscere la sua quotidianità, fatta di fili e colori, di arte e di messaggi:” Oggi i collezionisti sono possessori di gilet, costumi di scena e tessili di vario tipo, progettati da grandi artisti e realizzati da mani abili. Io avevo una vera e propria fissa per i tessili di Depero, ad esempio: li ho seguiti per 30 anni prima di metterci sopra le mani, ma alla fine ce l’ho fatta ed è stata una grandissima soddisfazione poterli riportare al loro originario splendore. É un lavoro difficile, perché ogni opera è diversa, richiede una manualità ed una delicatezza a sé.”

Ma in cosa consiste il lavoro? “Pulire, consolidare e conservare, senza mai ricostruire” – risponde senza esitazione Katia. L’impressione, ascoltandola, è che parli di esseri viventi ed è lei la prima a rendersene conto: “Mi rendo conto che posso sembrare pazza, ma io davvero in questi pezzi di tessuto sento un’anima e sono onorata di prolungare la loro vita per altri 100 anni con il mio intervento”

Un’artigiana vera

Viene spontaneo chiederle se si sente più artigiana o artista e la risposta arriva ancora prima di  terminare la domanda:”Assolutamente artigiana, in tutto e per tutto. Io non modifico e non creo: studio molto, ricerco immagini e dipinti che mi facciano capire l’uso che veniva fatto del tessile che sto restaurando, parlo con il committente, cerco di capire le esigenze di esposizione e poi individuo la soluzione migliore per restituire la dignità. Il mio lavoro richiede rispetto, l’opera non deve soffrire e non si deve danneggiare. Ogni tanto mi arrivano richieste assurde, ad esempio di restaurare un gonfalone già molto danneggiato che dovrà sventolare a 20 metri di altezza. E’ lì che io spiego che no, non si può.”

E continua: “Il mio è un lavoro di grandissima responsabilità: ogni tanto mi entrano in laboratorio dei tessili dal valore elevatissimo, ed io non posso ignorarlo, perché viene dichiarato nei documenti assicurativi. Io guardo la cifra e poi me la dimentico subito. Devo farlo, perché se continuassi a tenerlo presente, non toccherei nemmeno un filo! Con il mio lavoro, posso decidere della vita o della morte di un’opera e allora, sì, ho paura… Devo calibrare anche la forza con cui tiro un filo, per non parlare dei solventi… sbagliare prodotto è una condanna a morte.”

Paura, rispetto, commozione: “le mie giornate sono emozionanti”

Katia riflette ad alta voce: ” Serve un gran senso di responsabilità, nel mio lavoro. Ma anche tanta consapevolezza di sé: ci sono giorni in cui ti rendi conto che è meglio se non tocchi un filo, che anche se è sottile come un capello, potrebbe fare un danno e allora si deve capire che è meglio fermarsi.”

Il lavoro più emozionante? “Ricomporre le divise di due giovani soldati della prima guerra mondiale, i cui corpi sono stati restituiti dal ghiacciaio dell’Adamello. Nelle giornate di pioggia, entrando in laboratorio, si sentiva l’odore della morte, perché il tessuto era fuso con i resti decomposti. Erano ragazzi di 16 anni… da mamma, io ho sofferto, li chiamavo per nome, mi sono presa cura di loro, piangevo mentre tentavo di restituire loro un po’ di dignità. Li avevano uccisi con una pallottola in testa, legati tra loro e gettati in un crepaccio.”

Buon lavoro, Katia. É bello sapere che dentro la nostra associazione ci sono persone come te.

DATA DI PUBBLICAZIONE

26.10.2010

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